Quando si parla di cambiamenti climatici viene subito da pensare all’impatto ambientale che hanno gli scarichi dei mezzi di trasporto di tutto il mondo e delle industrie; solo grazie a delle recenti ricerche si sta dando sempre più importanza al binomio allevamenti intensivi – inquinamento, ovvero sempre più scienziati stanno dimostrando quanto siano inquinanti le industrie della zootecnica intensiva.
L’aumento della popolazione globale ha portato all’aumento del consumo di carne in particolare, ma anche di altri prodotti di origine animale come latte e uova; per soddisfare queste richieste alimentari si è dovuta aumentare la quantità degli animali allevati e quindi la superficie degli allevamenti stessi con pesanti ricadute sull’inquinamento atmosferico e non solo.
Il problema non riguarda solo gli allevamenti intensivi, ma anche la pesca e l’acquacoltura: gli allevamenti di Nieddittas sorgono nel Golfo di Oristano e per tutelare i mitili e l’ambiente in cui devono crescere effettuiamo più di 6.000 controlli all’anno, sempre nel pieno rispetto del mare e di tutte le altre specie ittiche che vi abitano e lo stesso avviene per la raccolta delle nostre cozze.
Queste attenzioni non sempre sono rispettate da chi pratica pesca intensiva e in particolare da chi sfrutta la pesca a strascico. Vediamo allora quanto è dannoso l’inquinamento degli allevamenti intensivi.
Cosa sono gli allevamenti intensivi?
L’allevamento intensivo è un tipo di industria zootecnica volta alla crescita e alla riproduzione di alcune specie animali destinate al consumo alimentare della popolazione globale; questo tipo di attività è conosciuto anche con l’acronimo CAFO, ovvero “concentrated animal feeding operation” e rappresenta l’evoluzione del tradizionale sistema di allevamento a livello industriale. In poche parole, le classiche fattorie sono state trasformate per puntare sulla quantità degli animali allevati, più che sulla qualità del metodo di allevamento: un sistema così meccanizzato comporta quindi dei costi di produzione molto più bassi che permettono di rivendere il prodotto finito, in primis la carne, ad un prezzo altrettanto basso.
Perché gli allevamenti intensivi sono sempre più criticati? Come si diceva, si punta tutto sulla quantità, perciò nella maggior parte dei casi gli animali vivono in ambienti molto ristretti in cui la possibilità di muoversi è pressoché impossibile, spesso sono sovraffollati il che facilita il proliferare di infezioni e malattie varie che spesso vengono combattute con un grande abuso di antibiotici e altri farmaci, infine questi ambienti sono male illuminati e molte volte si tratta di luce artificiale.
Un altro grande problema rappresentato dagli allevamenti intensivi è l’inquinamento che producono.
Inquinamento da polveri sottili
Che gli allevamenti intensivi inquinassero si era iniziato a capire già da tempo, ma solo delle recenti ricerche hanno dimostrato a quanto ammonta l’inquinamento atmosferico provocato da queste industrie. In particolare, uno studio portato avanti da Greenpeace in collaborazione con l’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ha portato alla luce un risultato molto preoccupante: tra il 2007 e il 2018 gli allevamenti intensivi hanno inquinato come quasi otto milioni e mezzo di automobili. In questo lasso di tempo l’industria zootecnica ha aumentato del 6% le emissioni ogni anno che equivalgono a 39 milioni di tonnellate di anidride carbonica.
Federica Ferrario responsabile Campagna Agricoltura di Greenpeace Italia ha affermato che è necessario invertire la rotta e destinare le sovvenzioni pubbliche per aiutare i piccoli allevamenti tradizionali a intraprendere un percorso di transizione, questo perché dati i risultati dello studio sarebbe impossibile combattere i cambiamenti climatici se si continua a fornire risorse economiche agli allevamenti intensivi.
Il problema più grande di questi allevamenti risiede nei grandi quantitativi delle flatulenze e dei liquami prodotti dai milioni di animali che vi risiedono. Le piccole quantità di liquame che si produrrebbero in un allevamento tradizionale verrebbero poi utilizzate come fertilizzanti per il terreno, ma quantitativi così alti sono dannosi perché queste sostanze sono ricche di azoto e fosforo che se conservate male rilasciano nell’aria ammoniaca che a sua volta unendosi ad altri componenti inquinanti produce polveri sottili.
Secondo l’ISPRA gli allevamenti intensivi sono la causa del 75% dell’ammoniaca immessa nell’aria e questi dati riguardano solamente allevamenti italiani; si può dire con sicurezza quindi che questo tipo di allevamenti sono la seconda causa delle polveri sottili nel nostro Paese, dopo l’inquinamento provocato dal riscaldamento residenziale e commerciale.
Sempre l’ISPRA evidenzia che l’industria zootecnica produce solo l’1,5% di inquinamento da PM primario, ovvero le polveri sottili prodotte direttamente da una sorgente come un tubo di scappamento, mentre la percentuale si alza drasticamente per quanto riguarda il PM secondario, cioè quello che viene generato dalla combinazione di diversi gas presenti in atmosfera, cosa che, come abbiamo detto, accade con l’accumulo dei liquami.
Allevamenti intensivi: inquinamento di acqua e terra
L’allevamento intensivo inquina anche l’acqua di superficie, le falde acquifere e il suolo se smaltisce in maniera scorretta i liquami raccolti.
La composizione di queste sostanze può accelerare l’eutrofizzazione dell’acqua aumentando la crescita di alghe e altre piante acquatiche causando la diminuzione dell’ossigenazione dell’acqua, facendo quindi morire molte specie ittiche e favorendo infine la proliferazione batterica e di altri microrganismi che possono danneggiare la salute delle persone. Secondo la FAO, ovvero l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, le riserve d’acqua di tutto il mondo sono contaminate da fitofarmaci e altre sostanze chimiche usate per concimare le colture di mais e soia destinate all’alimentazione degli animali.
Altro motivo per cui gli allevamenti intensivi sono molto criticati è per il grosso sfruttamento del suolo volto a far pascolare gli animali, si pensi ad esempio alla deforestazione che sta segnando l’America Latina e in particolare l’Amazzonia. Lo sfruttamento del suolo per il pascolo degli animali è causa della sua degradazione: il peso dell’animale e la pressione degli zoccoli compattano talmente tanto il terreno che rendono impossibile il drenaggio dell’acqua.
Anche la pesca e l’acquacoltura hanno un loro impatto sull’ambiente e in particolare sono un rischio per la biodiversità: le catture accidentali causano la perdita di quelle specie che non possono essere commercializzate perché non commestibili oppure perché non hanno ancora raggiunto la taglia richiesta; dagli allevamenti invece a volte possono liberarsi dei pesci che rappresentano un pericolo per la flora e la fauna di quell’ambiente.
Questione di salute
Quale potrebbe essere la soluzione per gli allevamenti intensivi e l’inquinamento che producono? Sicuramente bisognerebbe smettere di foraggiare questo tipo di industria e promuovere invece delle produzioni alimentari più sostenibili; anche i singoli cittadini possono fare la differenza cambiando le loro abitudini alimentari.
Uno studio compiuto nel 2008 dall’Institute for Environmental Studies dell’Università di Amsterdam ha dimostrato che la diminuzione dei consumi di carne corrisponderebbe alla diminuzione delle emissioni di CO2: ad esempio se tutti i cittadini olandesi smettessero di mangiare carne per un giorno a settimana si eviterebbe la produzione di più di 3 megatonnellate di anidride carbonica, corrispondente alla circolazione di un milione di automobili in meno nei Paesi Bassi per un intero anno.
Mettere un freno agli allevamenti intensivi significherebbe anche proteggere la salute delle persone; secondo molti scienziati, infatti, la circolazione del Covid 19 è stata favorita dall’inquinamento atmosferico causato in gran parte dall’industria zootecnica; inoltre, le sostanze che, come abbiamo detto, vengono prodotte, a lungo andare possono causare problemi di salute all’apparato cardiocircolatorio e respiratorio.
La diminuzione della produzione e del consumo di carne e di altri prodotti di origine animale, perciò, non solo porterebbe dei vantaggi alla salute del nostro Pianeta, ma anche di tutti i cittadini.